In un recente articolo Massimo Recalcati afferma che il nostro tempo sta vivendo una radicale trasformazione rispetto alla madre che è solito definire del “sacrificio”, ovvero colei che un tempo nutriva e accudiva. Colei che si dedicava in maniera totalizzante ai figli e di fatto rinunciava alla sua essenza di donna. E’ noto il poco spazio che si prendevano queste madri per se stesse, come se fosse culturalmente poco concessa l’idea di desiderare altro dai figli, di qualunque altro si parli, per esempio un lavoro. La madre del sacrificio era anche colei che tratteneva i figli presso di sé e che chiedeva loro in cambio, in maniera spesso inconscia e poco esplicitata, una sorta di fedeltà eterna. Questa madre, assorbita dal figlio ne costruiva una sorta di prolungamento di sé, investendolo di desideri propri e faticando a concepirlo come separato e diverso da sé.
Questi figli erano al sicuro ed iper-accuditi, ma pagavano il prezzo della libertà: i figli delle madri-sacrificio, una volta divenuti adulti, non sapevano emanciparsi. In Italia ne sappiamo ancora qualcosa e di queste madri ne percepiamo ancora lo strascico. Lacan porta di questa figura l’immagine del coccodrillo che con la bocca spalancata divora il suo frutto-figlio.
La madre di oggi invece, dice Recalcati, è la madre narcisistica, colei che rivendica la propria libertà e autonomia dai figli. Li vive come un peso e in poche parole finisce per trascurarli ed essere lontana. La sua realizzazione sul lavoro a scapito della cura e dell’amore. Cosi sembrerebbe.
Tuttavia se così fosse non ci sarebbe scampo per le madri: o sono iper presenti e soffocano la capacità di autonomia dei figli oppure, se hanno una vita, un lavoro e interessi al di fuori di essi, sono senza cuore.
Ogni caso è un caso, ogni madre ed ogni donna vivono la propria esperienza in maniera unica. Ogni madre va osservata valutando aspetti sociali, culturali e personali. Gli assolutismi o gli aut aut (o madre del sacrificio o donna in carriera) rischiano di essere rigidi e riduttivi, oltre che ciechi.
La figura della madre non si può ridurre ad una fotografia tutta bianca o tutta nera, tutta madre e poco donna o tutta donna e per niente madre. Una donna che lavora non necessariamente trascura i figli ed è patologicamente narcisista. Così come non tutte le donne-sacrificio hanno divorato i propri figli a scapito della loro emancipazione. Allo stesso modo non riterrei tramontata la figura della madre-sacrificio, anzi, come detto sopra ci sono ancora innumerevoli figlie, un tempo cresciute dalle madri-sacrificio, che non intendono mettere in discussione il modello di madre-sacrificio e lo tramanderanno nei secoli dei secoli.
Piuttosto si tratta di un dilemma complesso che stanno vivendo le madri di oggi e la difficoltà risiede nella capacità di integrazione. Nell’integrazione possono convivere aspetti di cura e dedizione verso i figli con il desiderio di guardare altrove (un lavoro, la carriera) senza colpa.
La possibilità di un’integrazione, tra la madre e la donna, non è solo un passaggio interiore. Poggia in primo luogo su una società che sostiene le donne che lavorano, in carriera o meno. In secondo luogo sul ripensamento e la riorganizzazione dell’assetto familiare che vede i padri contribuire alla vita dei figli al cinquanta per cento. E in ultimo e non meno importante poggia sulla trasmissione transgenerazionale di questo cambiamento.
La donna che Recalcati descrive come narcisista non è altro che l’esito dello sforzo e delle battaglie femministe che hanno consentito di uscire dalla condizione a mio avviso restrittiva di essere solo madri. È una lotta tutt’oggi in corso che comprensibilmente attraversa anche fasi di grida di rivendicazione e di negazione che troveranno un esito più armonioso.
Non si tratta di narcisismo, ma di una trasformazione. Dalla donna del sacrificio alla donna capace di integrare l’essenza di madre e quella di donna e di trovare un equilibrio in questa districata questione.